Sunday, August 20, 2006

Era guerra... e io un bambino / Era guerra... e eu menino



1. QUEL LONTANO 10 GIUGNO / AQUELE LONGÍNQUO 10 DE JUNHO

Avete mai notato come è strano e incomprensibile il meccanismo dei ricordi? A volte bastano le note di una canzone, il profumo di un fiore, una semplice parola, perché sorgano improvvisi alla memoria, riallacciando un periodo della nostra vita che sembrava dimenticato per sempre.
Non saprei dire pertanto per quale ragione mi ritorna alla memoria il giugno del 1940. Forse perchè ci troviamo in giugno, ed oggi è una magnifica giornata di sole. La stessa di quella di 62 anni fa.
Quel giugno del 1940 era per me, mio fratello e mia madre un mese speciale. Il 20 ci saremmo dovuti imbarcare per il Brasile, dove mio padre era emigrato un anno prima. Mia madre, indaffarata con i preparativi del viaggio, alle prese con facchini e spedizionieri, per levarci di torno, mi spediva, insieme a mio fratello al giardinetto di Montecavallo, al lato del palazzo del Quirinale dove con altri ragazzi di uguale tonnellaggio ingaggiavamo furibonde partite di calcio all’ultima scarpa, per la disperazione del “sor Adamo”, il guardiano, che diceva che gli rovinavamo il tappeto erboso. Quale tappeto erboso non sono mai riuscito proprio a saperlo, già che nello spiazzo dove giocavamo, pareva che ci fosse passato il cavallo di Attila. Non ci nasceva un filo d’erba!
Adesso, parlando sempre di cavallo non ho mai capito perché il giardino si chiamasse Montecavallo. Forse perchè c’era una statua equestre di re Carlo Alberto, guardando la reggia del Quirinale, reggia che in vita sua aveva avuto occasione di ammirare appena in cartolina...! Ma ritornando a quel 10 giugno, ricordo che verso le 5 del pomeriggio,quando l’ora poteva essere calcolata dallo stato di lerciume in che eravamo ridotti, udimmo un brusio di voci e di canti provenienti davia Nazionale. Sapete come sono i ragazzi, immediatamente interrompemmo la nostra partita di calcio, e dopo esserci guardati uno con l’altro, ci precipitammo in direzione al rumore.
Era un nutrito gruppo di studenti universitari, riconoscibili dai caratteristici berrettini di vari colori a secondo le facoltà frequentate, che intruppati seguivano vociando in direzione a piazza Venezia.
Chi guidava il gruppo erano due tizi stivalati e bardati di nero orbace, come scarafaggi, con tanto di cappello con la fatidica “gallina d’oro”, che marciavano impettiti davanti. Di volta in volta si riggiravano, e irrigidendosi sulla posizione d’attenti alzavano il braccio nel saluto romano berciando a pieni polmoni: “A chi la vittoria?”, “A noi !!!!” rispondeva la mandria. E la marcia continuava.
Io, insieme a mio fratello e agli altri compagni, sul marciapiedi stavamo a guardare, senza capire una acca della ragione di tutto quel baccano, al che, uno di quei giovani che sfilava, passandomi accanto, ridendo mi apostrofò: “ Ah babbaleo, chiudi il becco. Ma non lo sai che tra poco il Duce parlerà...!”. Il Duce parlerà? Fu come se mi avessero dato una frustata. Il Duce rappresentava per me una figura mitica, qualcosa al di sopra dei comuni mortali, una leggenda ,un dio. Poter avere l’opportunità di ascoltare la sua voce già mi inebbriva di un entusiasmo che mi faceva “tremar le vene e i polsi”. Il mio primo impulso fu quello di accodarmi alla mandria vociante che si dirigeva verso piazza Venezia, ma pensai che se “cotale Uomo” avrebbe parlato, sicuramente la radio avrebbe trasmesso le sue parole. E così, trascinandomi dietro mio fratello recalcitrante, correndo mi precipitai verso casa. Arrivai trafelato con la lingua di fuori, intanto mia madre e il nonno avevano messo in funzionamento il vetusto Phonola, un trabbicolo a forma di tempietto gotico, da dove uscivano confuse le urla della “massa oceanica” che si comprimeva davanti a palazzo Venezia, aspettando l’apparizione del “Nume”, mischiate alle note di “Giovinezza” e ad altri inni patriottici.
Alla fine il grande Uomo parlò. Sulle prime non riuscivo ad afferrare bene il significato di quello che diceva. Mi limitavo a scrutare il volto di mia madre che diventava sempre più preoccupato, ma quando udii l’annuncio: “La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bratagna e di Francia!”, mi si fece luce e compresi perfettamente quello che era accaduto. Non feci caso al morso che mia madre si dette al labbro inferiore, Si erano in quel momento spalancate le porte di un mondo nuovo, sconosciuto. Nella mia mente di ragazzo di 10 anni si stavano finalmente concretizzando tutti i fasulli sogni di gloria, di eroismo, di amor di patria prodotti dall’indottrinamento al quale ero stato sottomesso in quegli anni. Tutto l’inutile ciarpame che mi aveva imbottito la testa era entrato in eruzione.
Accompagnato da mio fratello, urlando mi precipitai in strada. Una gazzarra da non dire. La gente sorrideva felice, si abbracciava. Sembrava quasi che avessa vinto un terno al lotto. Sventolio di bandiere, grida ed evviva echeggiavano da tutte le parti: “La guerra...Siamo entrati in guerra...Vincere...e vinceremo...”
Travolto anche io dall’euforia generale mi misi ad inneggiare entusiasmato.
Ricordo che, appoggiata all’angolo di via Nazionale con via Milano c’era una vecchia signora che dimenava sconsolata la testa incorniciata dai capelli bianchi. Aveva in mano una sporta. Quando le passai accanto udii distintamente quello che diceva: “Ma lo sapete bene quello che festeggiate?”.
No. In quel momento non potevamo saperlo.
La fame, i bombardamenti, le disillusioni, l’occupazione tedesca, la guerra civile, la paura, le stragi e le deportazioni sarebbero venuti più tardi.
L’avrei dunque saputo dopo. Avrei anche compreso il significato di quel morso che mi madre si dette alle labra. Ma intanto anche la mia innocente e spensierata fanciullezza era oramai svanita per sempre....!
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